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La professione di avvocato in Italia

Pubblicato su “Corriere del Trentino” dell’ 8 novembre 2016


Nell’epifania che conclude il bel film “L’avvocato del diavolo” Al Pacino si rivolge a Keanu Rives con queste parole: “La legge, bambino mio, dà accesso a tutto quanto. E’ il supremo biglietto omaggio. E’ il nuovo sacerdozio. Tu lo sai che ci sono più studenti alla facoltà di legge di quanti avvocati popolino la terra? Stiamo arrivando! Con le armi in mano!”

L’arrivo, invece, di settanta nuovi colleghi nelle file dell’avvocatura trentina – circa un decimo degli iscritti all’albo in una sola sessione d’esame! – ha evocato toni poco meno apocalittici da parte dell’opinione pubblica locale.

A ragione, peraltro. Io stesso non posso non condividere l’analisi di fondo che sostiene siffatti toni catastrofisti. Con questi numeri la professione d’avvocato, in Italia, è destinata ad accelerare ulteriormente un processo di decadenza in atto da tempo che la nuova legge professionale del 2012, nelle intenzioni dei poco avveduti legislatori, avrebbe dovuto rallentare e, auspicabilmente, invertire. In altri termini, il definitivo tracollo nella qualità dei servizi erogati dai professionisti legali così come della qualità culturale e deontologica dei medesimi è ormai davvero dietro l’angolo.

L’aumento costante della offerta, al contrario di quello che può credere una classe dirigente poco preparata come quella italiana, non comporta sempre e comunque un miglioramento per gli utenti. Non per tutti i mercati. Certamente non con riferimento al mercato dei servizi legali che ha ad oggetto beni spesso insuscettibili di diretta valutazione pecuniaria.

I soggetti che sarebbero chiamati, in vario modo, a disciplinare tale mercato (il legislatore, certo, ma anche l’Autorità garante della concorrenza, i giudici che liquidano le parcelle o l’Avvocatura dello Stato che le opina al fine di rifondere le spese legali ai pubblici impiegati) si mostrano, salvo rari casi (penso ad alcune lucide righe del magistrato Paolo Borgna in un suo libro scritto, riecheggiando Calamandrei, qualche anno addietro) assai poco avvertiti del problema, mostrando così di credere, sulle orme del Carosone di “Tu vuoi fa’ l’americano”, che il mercato sia sempre e solo “mano invisibile”. Cosa, in fin dei conti, non sorprendente nel paese che, ancora pochi decenni addietro, mangiava a Natale panettoni confezionati dallo Stato così come guidava automobili fabbricate dallo Stato medesimo. Si sa, infatti, che nessuno eccede nello zelo quanto i neo – convertiti.

Quanto siano errate le premesse pseudoliberiste e pseudoliberali che stanno alla base della comune opinione secondo cui, anche nel mercato dei servizi legali, il libero incontro tra domanda ed offerta comporti l’ottimale allocazione delle risorse e, pertanto, la maggiore efficienza del sistema, lo possiamo constatare dalle parole stesse di chi, con ben altra lucidità, questa “mano invisibile” la teorizzò, con alcuni dei brani che lo stesso Adam Smith dedicò a questo problema nella sua opera maggiore: “Noi affidiamo la nostra salute al medico, la fortuna e talvolta anche la vita e la reputazione all’avvocato ed al procuratore. Tanta fiducia non si potrebbe sicuramente riporre in persone di condizione bassa o vile. La remunerazione serve esser quindi tale da poter conferire loro quella posizione nella società che è richiesta da tale fiducia. Quando a questo fatto aggiungiamo il lungo tempo e la grande spesa richiesti dalla loro istruzione, ciò necessariamente innalza ancora di più il prezzo di questi lavori”.

Già, l’istruzione. Questa - come è stato autorevolmente sottolineato anche nel corso del dibattito a livello locale su questo argomento - è sicuramente il problema di fondo. Non solo per l’avvocatura ma, ancora una volta, per tutta la classe dirigente italiana.

Il sistema dell’istruzione superiore ed universitaria, infatti, costituisce la principale agenzia – almeno nelle intenzioni – di formazione e selezione delle future classi dirigenti. Ed è, per l’alto numero di laureati che essa sforna a livello universitario, la prima causa nell’inflazione di aspiranti avvocati così come di tante altre figure professionali per le quali, già oggi, c’è un drammatico surplus di offerta.

Questo male, a mio avviso, non si risolve certamente contrastando la pretesa “licealizzazione” delle scuole superiori con una indesiderabile “professionalizzazione” delle stesse. Anzi, da questo punto di vista, credo si stiano già facendo, anche nella nostra provincia, sin troppi danni (vedi l’insensata introduzione dei tirocini curricolari che sarebbero piaciuti tanto al Leopardi de “le magnifiche sorti e progressive” ma anche al già evocato Renato Carosone…) da parte di chi, evidentemente, non ha avuto modo di riflettere sulle vere finalità dell’istruzione. In materia ha scritto tanto ed autorevolmente, a nome di un’America meno macchiettistica (chi non ricorda la scuola delle tre “I” di berlusconiana memoria?), Martha Nussbaum, sottolineando, al contrario, la necessità di mantenere ed anzi potenziare una cultura umanistica non immediatamente funzionale alle ragioni della produzione.

Il problema, invece, è tutto italiano ed ha trovato, da tanto tempo, anche proposte di convincenti rimedi da parte di nostri compatrioti. Questo problema - proprio della nostra, invero storicamente modestissima, borghesia -è legata al vezzo tutto italiano per il “pezzo di carta”, per il titolo di studio caricato di significati che non ha e che non può avere. In altri termini, nel nostro paese – particolarmente carente di mobilità sociale come denunciato anche da recentissime ricerche – si attribuisce il ruolo di ascensore sociale non già all’istruzione in sé ma, solamente, ai titoli di studio, ai diplomi ed alle lauree. Questo fenomeno che confonde il mezzo con il fine – il cui rimedio resta sempre l’abolizione del valore legale del titolo di studio – venne magnificamente analizzato da Luigi Einaudi in alcuni suoi scritti - a cominciare dal celeberrimo “Sulla vanità del titolo di studio” - ma venne, soprattutto, icasticamente scolpito, quasi un secolo fa, da Piero Gobetti: “La nostra piccola borghesia è diventata come la vecchia nobiltà, una piccola casta che riconosce come sua base ideale l’esteriorità schematica del diploma, il formalismo irrigidito di un fatto compiuto, inerte. Guardate la realtà: quale valore ha il diploma scolastico nel reclutamento di giornalisti, scrittori, direttori di collezioni e di uffici editoriali, intraprenditori, industriali, uomini di commercio, uomini politici? Il diploma è rimasto il pegno, la garanzia a cui ostinatamente si attaccano i reazionari. (….).L’affollamento verrà meno appena lo Stato non darà più ai suoi studenti titoli e lauree”.

Vasto programma, verrebbe da dire, nel Paese ove Carlo V proclamò il suo “todos caballeros”!